soffrire più per i problemi della situazione economica. Può essere possibile che morire è un modo per affrontare la vita?
Tra molti uomini e donne vicini a noi, a volte anche fra i cristiani praticanti, si respira frequentemente un’aria di indifferenza sul veder soffrire o quando si provoca la morte altrui. In realtà si tratta di cuori anestetizzati dall’egoismo e purtroppo – ahimè – colpiti da una indifferenza che si è ormai globalizzata. Soffrire, morire o vivere, che mi importa di te? L’essenziale è togliere di mezzo qualcuno nel sopraffare l’altro.
La risposta, a tale confusione e decadimento morale, mi è arrivata meditando un passo della lettera di Paolo ai Gàlati (Gl 6, 14 – 18) quando afferma: “quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo è stato crocifisso, come io per il mondo… E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli”.
Proprio così, il nostro vanto dovrebbe essere la croce, ma di una croce non da scaraventare addosso agli altri ma da sopportare. Ognuno dovrebbe portarsi i segni della propria sofferenza nel proprio corpo e non scaraventare addosso agli altri tutte le possibili frustrazioni interne che provocherebbero inutili sofferenze. Il suggerimento di Paolo nella conclusione della frase è di far governare nella propria anima e nel proprio cuore la grazia del Signore nostro Gesù Cristo da donare ai fratelli.
È di importante insegnamento anche il metodo di Giovanni Paolo II che non disdegnò di mostrare le sue sofferenze fisiche al mondo fino alla fine dei suoi giorni, non si sottrasse al ministero apostolico, e mai provocò disagio al prossimo. La sua presenza sulla terra si concluse nel nascondimento e nella
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